MARVELIT

 

PRESENT:

 

Uomo Ragno

#62

 

 

Sin after sin – 3

The Game pt 2

 

Di Yuri N. A. Lucia

 

 

 

Emil Sisko mandò un lungo fischio d’approvazione all’indirizzo di Trisha Tanaka, la modella le cui forme pescate in un sito internet lo stavano deliziando da circa un quarto d’ora.

“Ci crederesti che fino a cinque mesi fa lavorava alla CBS come giornalista? Non era un gran che come inviata ma devo dire che in questa nuova veste non è niente male. Niente male davvero.” Disse con aria sognante mentre tormentava il suo mento con l’indice, come a voler piallare un lembo di barba sfuggito alla rasatura mattutina.

“Credevo mi tenessi più da conto, Emil. Parlare con te delle volte è frustrante. Ribatté Peter Parker guardandolo risentito per l’apparente indifferenza dell’altro.

“Peter, fece Emil, con tono di chi, pazientemente, rispiega per l’ennesima volta un’elementare verità ad un bambino che si impunta con capricciosa cocciutaggine su qualcosa,ti prego, non fraintendermi, sono felice per te. Non capita certo a tutti di essere contattato dai Fantastici Cinque, cavoli! Quelli quando camminano levitano mezzo metro da terra tanto sono al di sopra della media. Sei un grande. Per me lo sei sempre stato e se c’è una cosa che mi meraviglia è che in questo dipartimento non tutti lo hanno ancora capito. Diamine, sei sempre un passo avanti a tutti quelli che lavorano qui. Però cercare di coinvolgere me, è tutto un altro paio di maniche. Io non sono come te. Sono una sorta di mezzo fallito della scienza: volevo fare il fisico teorico e sono finito a fare il chimico; nel frattempo sono passato attraverso tante di quelle fasi…”

“Andiamo Emil! Non dire sciocchezze! Lo rimproverò Peter. I tuoi studi sul vibranio sono a dir poco eccezionali e se mai sono io che non capisco come mai tu sia così riluttante a farli pubblicare.

“Perché, amico mio, gli spiegò girandosi verso di lui, braccia conserte e gambe accavallate,quello che sono riuscito a concludere è che il vibranio è un elemento transuranico stabile. Praticamente: impossibile; il problema è che non sono riuscito a spiegare come mai invece esiste. Peter gli sorrise e, bonario:

“È solo questione di tempo. Ognuno ha una strada da percorrere prima di realizzare i propri obbiettivi.

“Ho già una certa età, per essere uno scienziato. Non credo che mi rimanga più tanto tempo per fare la grande scoperta della mia vita e guadagnarmi un posto nei sacri testi della scienza.

“Che diavolo dici? Hai solo pochi anni più di me.

“Comunque, amico mio, ti ricorderei che anche Cloud Bernard aveva un sogno, uno scopo, un obbiettivo superiore e ricordi che fine ha fatto? Non credo che la mia fine sarà molto diversa. Comunque, tanto per tornare al nostro discorso principale e concludere questa ultima, deprimente parte, sull’effetto Casimir non so dirti nulla di più di quanto non mi abbia detto tu. So che Lo Iacono era presente durante l’esperimento che ha confermato parte delle teorie di Casimir. Personalmente, e qui potrei deluderti, non ho mai creduto molto alla teoria dei gravitoni. Appartengo alla scuola di pensiero delle forze elettro deboli. Quindi, l’idea di anti-gravità, mi è un po’ difficile da digerire. Allargò le braccia quasi a volersi scusare per aver dato una brutta notizia all’amico. L’altro per tutta risposta sorrise, alzando un sopraciglio e, divertito: “ Strano. Eppure ci sono numerosi casi documentati che provano l’esistenza dei gravitoni. Pensa solo a quel trattato sui mutanti che riescono ad interagire con le forze elementari dell’Universo. Ti ricordi quel ragazzo di Houston, in Texas?”

“Ricordo che un esaltato gli ha sparato a bruciapelo proprio durante una conferenza. Uno dei pochi mutanti che, al tempo, era venuto allo scoperto. Desiderava solo dare una mano all’umanità, ed invece di mettersi un passamontagna con una X sulla testa, e scegliersi un assurdo nome in codice, voleva farlo aiutando la comunità scientifica. Era laureato in chimica, lo sapevi? I suoi poteri si sono manifestati tardivamente. Anziché all’adolescenza, come di solito succede, verso i ventidue anni. Forse perché era un klinefelter. Poveretto. Comunque gli studi su di lui non sono stati mai del tutto provati. Apparentemente sembrava produrre quelle particelle bosoniche che tu e quelli che la pensano come te, definite gravitoni. Però la parola apparentemente è d’obbligo. Non esistono prove certe e incontrovertibili e del resto, il Professor Pyotr Tirmenov, dimostrò che applicando i numeri di Fibonacci e il tensore di Ricci Curbastro, si poteva spiegare le facoltà del ragazzo, Alex Morton si chiamava se non ricordo male, come frutto di un interazione con le forze elettro deboli.”

“Ma nemmeno lui, se non sbaglio, riuscì a provare che la sua teoria era esatta. E gli esperimenti con gli acceleratori di particelle? Cosa ne pensi di quello condotto in Svizzera l’anno scorso?”

“Ammetto che quello potrebbe essere una prova a sostegno dell’esistenza dei gravitoni ma, l’effetto Kafka non si è ripetuto più dopo quell’unica volta. Se potessero riprodurlo esattamente come allora, beh, potremmo ragionarci seriamente sopra ma così non so proprio che dirti. Qualcuno ha affermato che si sia trattata di una semplice anomalia dovuta all’intenso campo magnetico creatosi.

“E degli studi di Richards?”

“Lasciamo stare Reed Richards, sai benissimo che non lo posso soffrire.

“Non ho mai capito perché.”

“Diciamo che la sua arroganza mi infastidisce notevolmente. È venuto in possesso di conoscenze scientifiche che potrebbero migliorare il tenore di vita dell’umanità a livelli fino ad ora inconcepibili e, poiché si è auto proclamato supremo censore di cosa è giusto e cosa non lo è, ha decretato che non siamo ancora adatti, noi comuni mortali, a venirne in possesso. E così, tra un salto nella così detta Zona Negativa e nell’improbabile Microverso, qui ci stiamo ancora arrabattando per rendere le centrali nucleari più sicure ed efficienti, al fine di non avverare il pianeta e poter disporre di tecnologie per la produzione d’energia atte a poter soddisfare i crescenti bisogni della popolazione mondiale.

“Sei stato chiaro, Emil.”

“Scusa lo sfogo. Comunque, tornando a noi, il problema è che come vedi, chi potrebbe fornire la prova dell’esistenza dei gravitoni, e per prova ne intendo una certa e inconfutabile, o si tiene per sé la tecnologia o i propri poteri, giusto per non correre il rischio di finire ammazzato da qualcuno. Ho letto la relazione dello scorso anno dei Fantastici Cinque e, ti devo confessare, l’ho trovata molto interessante. Se però mi chiedi dove vogliano arrivare con i loro studi, non so proprio che dirti. Io sto ancora cercando di capire cosa esattamente sia l’energia di punto zero, figurati. Comunque, se quello che mi hai detto è esatto, stanno cercando un modo di catalizzare l’Effetto Casimir e aumentare esponenzialmente la produzione di anti-materia che ne consegue.

I due si fissarono per qualche secondo, rimanendo in silenzio.

 

Nuova Installazione del P.H.A.D.E., da qualche parte nello Stato di New York – Lunedì ore 9.00 a.m.

 

“Quattro cellule.” Affermò compiaciuto Leon Kavanagh facendo sorridere divertita Dafne.

“Zucchero?” Chiese lei con gentilezza ma lui, altrettanto gentilmente e ricambiando il sorriso, rifiutò. Dafne, quasi a volersi scusare dell’interruzione: “Mi diceva delle quattro cellule.

“Aria, Terra, Acqua e Fuoco. Il fulcro della riorganizzazione del personale di sicurezza di questo progetto passa attraverso una divisione della gestione delle nostre risorse umane e tecnologiche. Ogni cellula è una sezione indipendente al cui capo ho posto degli ex ufficiali in pensione ed entrati nel mondo dei mercenari già da qualche tempo. Ognuno di loro è un esperto nel suo campo e ad ognuno è stata data ampia libertà nella gestione del proprio personale civile e dei propri uomini.

Le sedi sono state dislocate in località diverse in modo che, non possa più accadere di venire sorprese come ha fatto Raabe, attaccandole direttamente in casa propria. A portata di fischio come si suol dire, ma fuori portata di fionda, se capisce cosa intendo.”

Dafne era divertita. Gli piaceva Leon. Era un buon soldato e un uomo leale. Cacciò indietro il senso di colpa che, da qualche tempo a quella parte, sembrava gravare sul suo cuore quando pensava all’inganno di cui lui, e tutti gli altri, erano vittime.

“Capisco. Espressione piuttosto strana ma chiara.

“Io le coordino tutte e quattro ma, in caso di bisogno, possono agire senza di me, comunque in sincronia tra loro, senza intralciarsi l’un con l’altra.

“Un meccanismo a prova di errore.”

“Nulla lo è. Diciamo che se esiste una perfezione, questo gli si avvicina molto. Affermò con un certo compiaciuto orgoglio.

“E le ricerca del nostro Raabe?”

“Sto aspettando l’ultimo rapporto dai miei uomini ma ho una mezza idea di dove concentrare gli sforzi.”

Leon bevve un po’ del te che la Milles gli aveva servito e, mentre lei era voltata per posare il vassoio, le lanciò un’occhiata carica di risentimento. Pensò a quanto accaduto la sera prima.

 

Stan Johanson lavorava con Leon da diversi anni. Leon si considerava un buon mercenario. Sicuramente tra i migliori in circolazione. Nel suo lavoro la falsa modestia era deleteria almeno quanto l’arroganza. Stan invece era uno dei migliori tra gli agenti segreti. Quando smise di lavorare per la Stasi, fu subito corteggiato da metà dei servizi segreti di tutto il mondo ma lui decise di lavorare da indipendente anche se con un contratto di “esclusiva”. Il P.H.A.D.E. lo pagava molto bene, gli garantiva quell’indipendenza che lui desiderava e allo stesso tempo protezione da chi, eventualmente, avrebbe potuto decidere di eliminarlo non avendolo potuto assumere poiché considerato troppo pericoloso. Stan era paziente, meticoloso, accurato e aveva anche un gran senso dell’umorismo. Quando passi buona parte della tua vita a cambiare identità, faccia e a “suicidare” le persone, sviluppi una buona dose di ironia o diventi incredibilmente triste, si disse Leon. Sapeva inoltre cucinare bene ed era sicuramente una persona molto interessante. Leon gli aveva affidato il comando della quinta cellula, quella del legno, di cui nessuno, nemmeno Toninev sapeva nulla. Da tempo si era detto che l’intelligence del P.H.A.D.E. lasciava a desiderare e si era premunito creandone una tutta sua che rispondeva a lui e a lui soltanto. Aveva pensato a tutto Stan. Lui aveva contattato gli uomini giusti, quelli fidati e gli aveva organizzati. Erano tutti sul libro paga dell’ente ma stavano svolgendo ora funzioni di cui i loro datori di lavoro non sapevano nulla. Raabe lo aveva messo sulla difensiva e a Leon non piaceva stare sulla difensiva. Non era da lui. Il primo sospetto di Leon era che all’interno del Progetto ci fosse una talpa e questo poteva voler dire solamente una cosa: nel P.H.A.D.E. doveva esserci una talpa; nessuno entrava nel progetto senza la loro autorizzazione e loro controllavano tutto e tutti. Tutto e tutti. Non poteva rivolgersi alla loro commissione “affari interni”, perché non sapeva se potersi fidare di loro e così aveva chiamato Stan, il suo personale Deus ex machina. Stan aveva lavorato alacremente, con grande perizia e metodo. Quello che aveva scoperto stava nel dossier che aveva portato quella sera con sé e a cui Leon lanciava diverse occhiate cariche di dubbi. Dubbi su tutto fuorché sull’attendibilità delle notizie contenute dentro.

“Nessuno di loro,disse con la sua imperturbabile flemma Stan,ha mai ricoperto incarichi di rilievo all’interno dei servizi segreti prima del P.H.A.D.E. Sottolineo nessuno. Erano tutti dei B-1, qualcuno B-2 ma niente di più. Si trattava di agenti men che mediocri, destinati ad incarichi di tipo burocratico. Poi nel ’64, boom! Hanno cominciato a far registrare punteggi da campione in tutti i test che facevano: quello annuale per il rinnovo della licenza, quello per il passaggio del livello e via dicendo; un paio di loro partecipano come operativi ad una missione di alto profilo dopo essere stati rassegnati. Un vero successo. Passa un anno e i due agenti in questione vengono promossi ad un nuovo incarico, direzione di un progetto sull’orlo della chiusura: il P.H.A.D.E.; al tempo del subentro al comando cacciarono via tutti quanti gli ufficiali del progetto e portarono con sé tutti i loro amici, ovvero tutti quelli che inspiegabilmente avevano mostrato un incremento delle proprie capacità.”

“Un aumento inspiegabile delle loro capacità? Più che una domanda era un commento, il sottolineare qualcosa, quell’indefinibile inquietudine che aveva provato le poche, rare volte in cui aveva parlato con qualcuno che del P.H.A.D.E. che non fosse Dafne Milles e, a ben pensare, anche lei aveva qualcosa di indefinibile, di inesplicabile.- Mi stai dicendo che, un gruppo di agenti segreti burocrati si trasformano in massa in super agenti e che nessuno fa domande?”

“Erano anni difficili. La Guerra Fredda, ricordi? Io l’ho combattuta, anche se al tempo ero dall’altra parte della barricata. C’era un’aura di morte su ogni cosa. Per noi lavoratori del settore, era così. Era come se il disastro incombesse costantemente sulle nostre teste, pronto ad abbattersi senza preavviso. No, non mi stupisce che nessuno abbia fatto troppe domande in proposito. Sei nel bel mezzo di una sparatoria, in minoranza, con le spalle al muro e improvvisamente ti ritrovi un mitra carico tra le mani, l’ultimo modello in fatto di armi automatiche. Tu che cosa fai? Filosofeggi su quanto ti è accaduto o scarichi tutto il caricatore su quelli che vorrebbero farti fuori?”

“Hai reso l’idea.

“Hanno radicalmente cambiato la struttura organizzativa del P.H.A.D.E. ma non l’hanno fatto in un solo giorno. È stato un lavoro progressivo e ben ragionato. La loro struttura è divenuta un complesso sistema di scatole cinesi in cui i dirigenti si sono comodamente nascosti in tutti questi anni, dal 1966 ad oggi e in cui, soprattutto, hanno tenuto al sicuro quelli che erano i loro piani. Vuoi sentirne una divertente? I miei contatti dicono che ai piani alti, nessuno abbia un’idea precisa di cosa faccia esattamente il P.H.A.D.E.”

“E il nostro progetto?”

“Il vostro progetto è uno dei segreti che, ti assicuro, custodiscono meglio. Se non ne avessi saputo già l’esistenza, avrei faticato parecchio per venirne a conoscenza. Mi ci sarebbero voluti anni di lavoro.

Leon sorrise.

“Se ti ci sarebbero voluti anni a te…”

“Sai bene che Nick Fury è il top delle spie ma che io vengo subito dopo.

“Non eri tu il numero uno per la classifica di World Spy?”

“Solo per un anno. Però è stata una bella soddisfazione sapere che al vecchio monocolo è preso un mezzo colpo quando ha letto che al numero due c’era lui quella volta.”

“Pagherei una cifra folle pur di vedere quel fottuto di Nick rodersi il fegato. Tornando a noi?”

“Tornando a noi, voi siete super blindati e gli uomini che dirigono il P.H.A.D.E. non si fanno vedere in giro da parecchio, parecchio tempo.

“E la Milles?”

La Milles è una dei pochi membri ad essere stati reclutati da cinque anni a questa parte.

“Cinque anni a questa parte…”

“Già. Sembra strano anche a me che un’organizzazione del genere, che ha le mani in pasta un po’ dappertutto, abbia reclutato nei suoi ranghi così poche persone: dieci in tutto; stiamo parlando di cinquanta persone in tutto. Pochine, decisamente, eppure riescono a compiere dei veri e propri miracoli.

Leon fissò il suo amico, attendendo che continuasse a parlargli, a raccontargli cosa aveva scoperta a dar corpo alle incertezze sui suoi padroni che per anni lo avevano accompagnato.

 

“Tutto bene?” Dafne sembrava un po’ preoccupata. Leon si era fissato alla finestra. Osservava con maniacale attenzione alcuni uomini che al molo stavano scaricando da un mini sottomarino, alcune casse gialle.

“Tutto bene.” La tranquillizzò lui, sorridendole con garbo.

 

 

Stato di New York, da qualche parte – Martedì ore 4.30 a.m.

 

La vita si era terribilmente complicata e questo era il grande difetto del secolo in cui viveva. Questo era stato il primo pensiero al risveglio.

Il cielo era ancora buio, l’aria fresca e il silenzio era rotto solo dall’occasionale canto di qualche passero.

Eppure, anche in quella quiete paradisiaca, non riusciva a trovare la pace a cui anelava con tanto ardore.

Scese le scale, un gradino alla volta, lentamente. La mano passava lungo il muro di grandi pietre squadrate costruito tre secoli addietro. L’odore di muffa ed umido gli riempì le nari e la gola, strappandogli un colpo di tosse.

Giunse davanti gli scaffali dove aveva sistemato degli attrezzi e aprì la porta diligentemente occultata dietro di essi. Un bel trucco, non c’era che dire, si complimentò tra sé e sé. Nessuno se ne sarebbe mai accorto. Nessuno avrebbe mai violato la sua intimità. Nessuno.

Eppure la sua vita si era drasticamente complicata.

Scese ancora nelle viscere del suo antro, verso la stanza che aveva eletto come suo nuovo grembo materno, sicuro rifugio da ogni nequizia e sozzura che stava fuori, nel mondo. Socchiuse gli occhi, per godere meglio di quel momento in cui sentiva lo spirito rigenerarsi, liberarsi delle paure, dei dubbi e delle ansie. Socchiuse gli occhi mentre lasciava che i pensieri corressero liberamente dentro il suo cranio, combinandosi in nuove, complesse forme geometriche.

Arrivò di fronte al tavolo che stava al centro della piccola sala, il suo pensatoio, e si lasciò cadere sulla poltrona Stockwell comprata ad una svendita, tre anni fa. Un buon affare. La damascatura era un po’ consunta ma l’imbottitura reggeva ancora bene. Comoda, avvolgente, di classe. Cosa si poteva chiedere di più ad una poltrona? Sorrise. Massaggiò delicatamente la fronte con i polpastrelli, movendo le dita in piccoli, quieti cerchi. Con l’altra mano cercò la lampada sul tavolo di palissandro e la accese, riempiendo l’ambiente di un piacevole chiarore arancione. L’arancione gli metteva sempre allegria. Lanciò un’occhiata alle liste che stavano ordinate sul tavolo. Erano lì, immobili e attendevano di essere lette. “C’era ancora tanto lavoro da fare ma la vita si era ulteriormente complicata e tutto questo, esclamò in un improvviso eccesso di collera,” per colpa tua!” Prese un coltello a serramanico posato sul tavolo e lo lanciò contro la foto che aveva appeso alla parete di fronte: Dominic Kutzchacha lo fissava con il suo largo sorriso, la barba perennemente mal rasata, l’aria irrimediabilmente svogliata ed ottusa; senza più possibilità di replicare o di dire qualsiasi altra cosa. Senza più alcuna speranza. Dominic era divenuto il suo fornitore di armi ma si era fatto imprudente e aveva attirato troppo l’attenzione su di sé ed inoltre si era spinto troppo in oltre con le sue attività criminose. Non poteva più tollerarlo e per questo aveva dovuto prendere provvedimenti. Il poliziotto, Philip Mansel, era stato un danno collaterale. Coprì il suo volto con entrambe le mani. Rivisse per un istante quell’accadimento: la sorpresa, lo stupore negli occhi dell’altro; rivide lo sguardo del poliziotto che per primo era corso alla finestra intuendo che fosse stata quella la sua via di fuga. Oliver Terenzio Rucker si chiamava.

“Gesù mio, che cosa ho fatto?” Rise. Rise mentre le lacrime scendevano lungo le gote. Rise del mondo e di sé. Si alzò e andò a prendere la sua faccia, quella che teneva nella scatola nera sopra il comodino vittoriano. La prese e la mise su. La carezzò lascivamente. Un immutabile, confortevole volto di cuoio.

Andava meglio. Ora sentiva che tutto, ancora una volta sarebbe andato bene.

“Mettiamoci al lavoro. Sentenziò.

C’era tanto fare. Tanti posti dove andare e ancora più peccati da mangiare.

 

Richmond, New York City – Martedì ore 6.00 a.m.

 

John Booth lanciò una sconsolata occhiata alla vecchia fabbrica della Remington che stava al limitare del suo isolato. Lo chiamavano il vecchio sornione quel massiccio e tozzo edificio dalle ampie finestre. Lo chiamavano così perché risaliva ai tempi della Guerra Civile e perché sembrava un grande animale immerso in un profondo letargo. Dopo un anno dal suo trasferimento in quell’appartamento non si era ancora capacitato di come fosse stata possibile quella strana coincidenza. Del resto ad anni di distanza non si era ancora capacitato del fatto che i suoi gli avessero messo nome John. Il cognome era qualcosa che gli era capitato ma il nome era stato un atto deliberato. Essere l’omonimo dell’assassino di uno delle figure storiche da lui più ammirate non lo aveva mai reso troppo entusiasta. Ricordava le battute a scuola: “Che farai John? Ora mi sparerai?”; di solito seguiva un pugno o uno spintone e poi il coro di risate dei suoi compagni. Lui non se la prendeva troppo. Non era quello a dargli fastidio ma l’incredibile leggerezza dimostrata dai suoi genitori nello scegliergli il nome. Prese il cartone del latte e dette una lunga sorsata. “Buono”, commentò compiaciuto. Si pulì con il dorso della mano e andò in cucina. Spostò il frigo e aprì il piccolo armadio a muro nascosto lì dietro. “Ak Spetsnaz o Uzi smg?” Si interrogò su quale dei due avrebbe portato con sé durante la sua ronda notturna. Scelse il secondo. L’Ak ormai lo usavano tutti. Andava di moda tra le gang di negri e tra quelle di ispanici. Meglio un classico: era un giusto compromesso tra stile e prestazioni; al party avrebbe portato anche il Rossi 986 Cyclop, un potente .357 magnum e la Para Ordenance P-14, un’arma decisamente più piccola e veloce. Aveva comprato degli agganci appositi per montare sotto la canna delle torce per vedere al buio.

Sul pugnale, invece, non ebbe alcuna esitazione: il suo Santino Balestra; la sua lama in titanio era uno splendido connubio di eleganza e letale efficacia. Resistente, rapido, ben bilanciato per il tiro.

Nessun dubbio. Del resto il pugnale era così: un’arma con la quale il proprietario stabiliva sempre una relazione molto personale e forte; una pistola era un informale mezzo per portare morte. Tutto sommato, poneva il più delle volte tra sé e il bersaglio, una comoda distanza che serviva a mantenere intonso il proprio spazio vitale. Il pugnale invece era tutta un’altra storia. Il pugnale trasformava un duello, o un omicidio, in qualcosa di estremamente personale. Non c’era nessun grilletto da tirare. Tutto quello che si doveva fare era affondare con forza nell’avversario il metallo. Tra chi pugnalava e chi subiva, si stabiliva un legame tanto intimo quanto effimero. Il contatto era estremo e rimanere indifferenti era impossibile. No. Il pugnale era qualcosa di troppo importante per sceglierlo con superficialità.

Mandò giù un altro sorso di latte e posò il cartone sul tavolino vicino. Andare di pattuglia la sera, dopo quanto successo al poliziotto, era divenuto ancora più pericoloso di quanto non fosse stato in passato. La città in generale, negli ultimi tempi, era divenuta ancora più insidiosa. La follia che la animava sembrava aver raggiunto il culmine. Kurt lo aveva messo in guardia: “è un inevitabile realtà, John. La follia è un informe ed insensata massa che aumenta il proprio volume con progressione geometrica. Per quanto tu ti possa sforzare, non riuscirai mai ad arrestarne la crescita utilizzando il semplice raziocinio. Per riuscirci, dovrai andare alla radice e avere il coraggio di fare il tuo lavoro fino in fondo.”;

Kurt lo aveva trovato. Kurt lo aveva iniziato. Kurt lo aveva addestrato. Mesi in California prima e nel Vermont poi. Una progressiva destrutturazione di quello che era stato, del ragazzo silenzioso e riservato, timido ed introverso. Lo aveva modellato proprio come Michelangiolo faceva con le sue creazioni: tirandole fuori direttamente dal marmo. Così era stato per lui. Dentro era sempre stato così ma Kurt gli aveva dato il coraggio, e la preparazione necessaria, per abbracciare la propria natura.

Era una questione di pura e semplice ecologia. Quando il numero dei folli in giro aumentava troppo, allora la natura produceva qualcuno come lui: un insancida; bevve un’altra sorsata di latte e scelse con cura il suo prossimo bersaglio. Si era preparato psicologicamente per la caccia grossa ed ora, era giunto il momento di mettere in pratica tutto quello che aveva imparato.

 

Brooklin, N.Y.C. – Martedì ore 4.00 p.m.

 

 

Dette una rapida letta ai principali titoli del Bugle e poi corse a leggere gli aggiornamenti di guerra e quelli dell’altra guerra che si stava combattendo negli ultimi tempi a New York.

“ Nessuna notizia su di me.” Pensò Peter con un amaro sorriso sotto la maschera. J.J. non aveva mostrato più nessun interesse per la sua campagna denigratoria. La sua, personale, infinita guerra contro l’Uomo Ragno, indiscusso capo, nella distorta e malata fantasia dell’editore, di tutte le minacce mascherate di questo mondo. Troppo dolore per fomentare ancora l’odio in una città devastata da una tragedia dopo l’altra. Troppi sensi di colpa.

“L’hai creato tu.” Pensò in un moto di rabbia mentre con la mente riviveva quanto successo con lo Scorpione, una cicatrice che niente e nessuno avrebbe mai potuto rimarginare. Il dubbio atroce di essere un assassino. Il senso di colpa per quello di liberazione che provava. La testa di quel bambino. Il suo cranio. Il sangue nel pullman dove giaceva insieme ai suoi piccoli compagni.

“Brucia all’inferno, Gargan.” Sussurrò. Portò la mano al capo e massaggiò come per scacciare via tutto quanto.

 

Frank Cortese salì le scalette di ferro che portavano sul tetto. Era molto tempo che non incontrava il suo vecchio amico Uomo Ragno. Gli sarebbe piaciuto che questo avvenisse in altre circostanza ma la vita non sempre andava come si desiderava.

Aprì la porta gialla e trovò l’arrampicamuri attaccato ad una parete che leggeva il giornale.

“Ciao palla di tela. Che c’è? Non dirmi che adesso leggi quel cumulo di porcate che spacciano per un giornale?”

“Ciao a te, Big F. Tolti gli editoriali di baffetti da Hitler, il giornale è buono.

“Come posso esserti d’aiuto?”

Frank, che gli si era avvicinato, gli tese la mano che l’altro strinse con calore e gratitudine.

Frank ormai aveva superato la quarantina. Non era molto alto e all’apparenza sembrava piuttosto tarchiato. Il ragnetto sapeva che l’aspetto era ingannevole. Il suo fisico era ancora piuttosto allenato e, anche se massiccio, dotato di un’agilità notevole.

Per il resto Frank era un uomo dal viso comune: capelli castani tagliati corti, occhi verde scuro dal taglio piuttosto comune, ampi zigomi e solo una piccola cicatrice sulla mascella squadrata che lo contraddistingueva;

“La mia faccia è stata la mia fortuna. Sai quante persone se ne ricorderebbero se la vedessero? Poche. Sono l’uomo della strada. L’uomo che potresti incontrare al bar o al supermarket. Uno come tanti. La mia faccia, palla di tela, è la mia migliore assicurazione sulla mia intimità. Il ragno ricordava ancora quel discorso che Frank gli fece tanto tempo fa. Gli era sempre piaciuto, sin da subito e da subito gli si era affezionato. Lo stesso si poteva dire per Frank. Sapeva che il vigilante mascherato era un bravo ed onesto ragazzo e poi lo ammirava: aveva fegato da vendere il ragazzo; questo pensava di lui.

“Grazie per essere venuto qui. Non sai quanto io te ne sia grato.”

Disse Peter tornando con la mente al momento contingente.

La giornata era piuttosto tranquilla. Solo un leggero vento sembrava rompere la quiete di un cielo altrimenti immobile. Quasi il Fato avesse voluto concedere alla grande mela una giornata di tregua dagli orrori dei giorni scorsi.

“Non dirlo nemmeno per scherzo. Sai benissimo che quando hai bisogno puoi benissimo rivolgerti a me. Il problema è che non so se potrò o meno esserti d’aiuto. Ormai è un bel pezzo che mi sono ritirato dal giro e non posso più garantire per le mie fonti. Tre dei miei vecchi informatori che ti avevo passato, sono morti. Baby face se la è data a gambe levate dalla città, e forse ha fatto bene. La droga ha reso Mouth Shout del tutto inaffidabile e l’alcool ha fatto lo stesso effetto a Orecchie da cavallo. Sono pochi ormai, quelli che una volta chiamavo i miei amichevoli collaboratori. Gli strizzò l’occhio, con aria malandrina e complice, strappando una risata divertita all’Uomo Ragno. Sono anche tutti spaventati. La gente muore. È sempre successo e succederà sempre. Ultimamente però muore molto più di frequente, specie se da informazioni a quelli del giro. I Jong e le altre bande, hanno fatto piazza pulita di parecchi della vecchia guardia, i superstiti ed i giovani non vogliono seguirli nella tomba. Vedrò comunque che posso fare.”

“Frank, quello che stai facendo è già tantissimo. Ti sono debitore e lo sarò per sempre, e tu continui ad aiutarmi.

“Davvero? Eppure, ragazzino, continuo a sentirmi in colpa. Un paio di notti fa, ho aperto l’armadio blindato dove tengo le mie vecchie cose. Le ho guardate per un po’. Mi sono detto: hey Frank, fai la cosa giusta; e poi ho richiuso tutto.

“Forse è questa la cosa giusta.”

“Per la mia famiglia? Si. Ho preso una decisione tempo fa. Mi vergogno a dirlo ma da una parte sono pentito e mi sento in colpa. Quando è successo tutto quel casino con lo Scorpione e Scorpia, Cristo santo, e quando hanno ucciso quel povero poliziotto, mi sono sentito terribilmente in colpa. Dovrei essere lì, nelle strade, con voi: ed invece non ho abbastanza coraggio.

“Sei l’uomo più coraggioso che io conosca. Cavoli Frank! Persino Devil, che è l’uomo senza paura per antonomasia, mi ha detto che hai più coraggio tu di dieci come lui messi insieme!”

“Ah! Il vecchio cornetto! Pessime barzellette, ma bravissimo a dirne di balle. Salutamelo quando lo vedi. Comunque, ecco qualcosa che può esserti d’aiuto. Una lista. Non è molto ma ci troverai nomi, posti e qualche numero di telefono. Puoi cominciare da lì per la tua caccia.”

Gliela passò e l’altro la prese, senza nascondere il suo entusiasmo. Lavorare alla cieca era una specialità di Matt, non la sua. Si dette dell’idiota per la battuta che aveva fatto con sé stesso.

“Questa lista potrebbe cambiare le cose, lo sai? Frank, sei un eroe, con o senza costume e questo non cambierà mai.

Il sorriso dell’uomo era carico di amarezza ma ringraziò comunque per il sincero apprezzamento dell’amico.

“Se fossi stato un vero eroe, loro sarebbero ancora vivi. Pensò con grande tristezza.

“Grazie a te, e torna quando vuoi.” Disse invece.

 

 

Harlem, New York – Martedì, ore 11.00 p.m.

 

 

“Sono pazzo.” Si disse Peter Parker mentre solo un sottile filo grigio scuro di ragnatela sintetica gli impediva di volare verso la strada. Ripensava alle parole di Frank sullo scegliere la famiglia e si scoprì ad invidiare quella forza che il suo amico giudicava invece debolezza. Sua figlia stava crescendo in un mondo che lui sapeva bene essere divenuto pericoloso e sarebbe dovuto essere sempre al suo fianco, per aiutarla e sostenerla quando sarebbe servito. Anche sua moglie si trovava ad affrontare ogni giorno prove difficili e pericolose. Ripensò a Philip ed ebbe un moto di rabbia ripensando a quanto successo solo pochi giorni prima, mentre si trovava in Europa. Quando M.J. gli raccontò cosa era accaduto dovette usare tutto il suo autocontrollo per non andare in escandescenza e fingersi calmo e, soprattutto, per non correre verso il carcere dove l’uomo era stato portato e… rabbrividì al pensiero di ciò che avrebbe potuto fare.

Si sentiva preso in un turbinio di emozioni e in quel momento sentiva emergere forte l’odio per Adam Stanford, 39 anni, trafficante di armi. In fondo era lui che lo teneva lontano da casa quella sera. Stanford era uno dei più attivi rifornitori di armi della mala di newyorkese e questo lo poneva in due posizioni contemporaneamente: possibile fornitore per il Mangiapeccati o potenziale vittima del Mangia Peccati; no, si disse, era il Mangia Peccati l’oggetto del suo odio. Stanford era un verme e alla fine di quella storia avrebbe fatto di tutto per farlo sbattere in cella ma il Mangia Peccati ancora una volta era quel passato che sembrava  rifiutare di morire e tornava a tormentarlo. Se quello che Asa Pabst fosse stato vero, allora Stan Carter non era stato solo carnefice ma, in un certo senso, anche vittima. La sua mente era stata sconvolta da un esperimento fallito per replicare il siero del super soldato che aveva creato Capitan America. Era stato scelto per le sue qualità morali e mentali superiori. Stan era stato una brava persona. Un cittadino onesto ed integerrimo. Poi qualcosa dentro di lui era cambiato, un equilibrio definitivamente sconvolto e, giorno dopo giorno, era scivolato lentamente nel baratro della follia. Peter aveva saputo che il suo congedo dallo S.H.I.E.L.D. era stato “pilotato”. Anche se gli esami medici e psichiatrici successivi non avevano rivelato danni evidenti, le sue capacità sembravano essere state compromesse e così era stato prima posto in congedo a tempo indeterminato e, alla fine, pensionato anticipatamente. Però Stan non voleva darsi per vinto. Non voleva accettare di essere stato silurato, né di ritirarsi quando sentiva ancora forte dentro di sé il desiderio di fare qualcosa, di aiutare il prossimo, di essere utile alla società. Doveva esserci della frustrazione, del dolore dietro tutto questo. Qualcuno lo aveva incontrato. Qualcuno aveva capito cosa covava nell’anima. Qualcuno aveva alimentato il risentimento, spingendolo ancora di più nell’abisso, forgiando qualcosa a sua immagine e somiglianza per farlo divenire un adepto nella sua personale crociata per la giustizia e la verità. Si, perché questo credeva di aver intrapreso Stan e chi aveva contribuito a trasformarlo in un mostro, doveva essere profondamente persuaso della stessa cosa. La stessa convinzione ma doveva essere un mostro peggiore di quello che aveva creato.

“L’esca è lì e tu hai bisogno di armi per la tua guerra santa o di un’altra vittima da sacrificare per placare il tuo appetito.

Peter lo sapeva che l’uomo che stava osservando era un boccone troppo ghiotto e che la sua preda non avrebbe resistito. Era una tentazione troppo forte e lui, come tutti i ragni, sapeva essere molto paziente.

 

 

 

 

Fine episodio.

 

 

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Un saluto a tutti quanti voi e ci vediamo prossimamente.